Leggi l’articolo su studiocataldi.it Corte UE – sentenza 10.9.2024 C-48/22 La Corte Ue, con sentenza del 10 settembre 2024 nella causa C-48/22 P, ha confermato l’ammenda di 2,4 miliardi di euro inflitta a Google (ed alla controllante al 100% Alphabet) per aver abusato della propria posizione dominante favorendo il suo servizio di comparazione di prodotti. Google è principalmente nota per il suo motore di ricerca, che consente agli utenti di Internet di trovare e di raggiungere, mediante collegamenti ipertestuali, i siti Internet che rispondono alle proprie esigenze. I risultati delle ricerche degli utenti dovrebbero essere selezionati dal motore secondo criteri di «ricerca generale» senza che i siti ai quali essi rinviano remunerino il motore per apparire, oppure secondo criteri di «ricerca specializzata» di notizie, informazioni e offerte commerciali, per i viaggi aerei o per l’acquisto di prodotti anche attraverso la comparazione e la selezione delle offerte di venditori su Internet che propongono il prodotto cercato. Quest’ultima categoria è stata in discussione nella sentenza in commento, che ha operato una chiara ricostruzione “tecnica” del funzionamento del motore di ricerca di Google prima di decidere secondo diritto. Da un punto di vista tecnico, come detto, l’ordine di presentazione nelle pagine di ricerca dei risultati detti «naturali» dovrebbe essere indipendente da pagamenti, a differenza di quei risultati che appaiano nelle pagine del motore di ricerca, comunemente denominati «annunci sponsorizzati», che sono invece collegati a pagamenti effettuati dai siti Internet cui essi rinviano. I servizi di comparazione di prodotti sono stati inizialmente forniti (dal 2001) da Google tramite una pagina di ricerca specializzata, denominata Froogle, fisicamente distinta dalla pagina di ricerca generale del motore di ricerca, salvo poi abbandonare (dal 2005) la denominazione Froogle per adottare quella di Product Search ed inserire gli annunci sponsorizzati nella pagina di ricerca generale tramite raggruppamenti c.d. «Product OneBox», affiancati alle pubblicità nella parte alta o a lato della pagina e al di sopra dei risultati di ricerca generali. A partire dal mese di novembre 2011 in Europa, Google ha completato tale meccanismo con la presentazione diretta, nelle sue pagine di risultati generali, di gruppi di «annunci per prodotti» di diversi inserzionisti, con fotografie e prezzi, ribattezzati «Shopping Units» dal 2013, che rinviavano l’utente che cliccava su uno di quei link al sito Internet di vendita dell’inserzionista. Secondo la sentenza in commento, nello stesso momento in cui Google ha soppresso la Product Search avrebbe scientemente rinunciato a presentare risultati naturali per prodotti nella sua pagina di risultati specializzata, facendo apparire una pagina contenente solo annunci, denominata «Google Shopping» (pag. 4 pto. 13). Alla luce di tanto, già dal 2010 la Commissione europea avviava un procedimento di infrazione degli articoli [101] e [102] TFUE nei confronti di Google (nel 2016 esteso contro Alphabet) ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, del Regolamento (CE) 7 aprile 2004 n. 773 della Commissione, che si concludeva il 27 giugno 2017 con la dichiarazione che le pratiche di Google sopra descritte costituivano un abuso di posizione dominante del mercato dei servizi di ricerca generale su Internet e del mercato dei servizi di comparazione di prodotti su Internet e, per l’effetto, irrogava a Google un’ammenda di EUR 2.424.495.000 (di cui EUR 523.518.000 in solido con Alphabet). Più in particolare la Commissione riteneva che Google avesse abusato, a partire dal 2008, della sua posizione dominante in tredici mercati nazionali (Belgio, Repubblica ceca, Danimarca, Germania, Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Austria, Polonia, Svezia, Regno Unito e Norvegia), riducendo il traffico di risultati di prodotti concorrenti e aumentando tale traffico verso il proprio comparatore di prodotti, il che poteva avere (o aveva verosimilmente avuto) effetti anticoncorrenziali sui rispettivi mercati nazionali della ricerca specializzata per la comparazione di prodotti. In buona sostanza l’abuso consisteva nel posizionamento e nella presentazione più favorevole, all’interno delle pagine di risultati generali di Google, del proprio comparatore di prodotti rispetto ai comparatori di prodotti concorrenti; cioè Google mostrava nelle sue pagine il proprio comparatore in modo preminente e attraente in «boxes» dedicati, senza applicare ad esso gli algoritmi di «aggiustamento» applicati invece all’utenza, i cui risultati invece apparivano solo sotto forma di risultati di ricerca generale (link blu), e mai in un formato arricchito e ammiccante, restando peraltro soggetti a retrocessione nell’elenco dei risultati per opera degli algoritmi di «aggiustamento». Con atto dell’11 settembre 2017 Google proponeva ricorso al Tribunale dell’UE per l’annullamento o per la riduzione dell’importo dell’ammenda ricevuta, che veniva respinto con decisione del luglio 2019 sebbene fosse stata annullata parzialmente la decisione della Commissione nella parte in cui si configurava la violazione del divieto di abuso di posizione dominante del mercato della ricerca generale, ritenendo il Tribunale che non fossero stati dimostrati gli effetti anticoncorrenziali, anche solo potenziali, della pratica di Google sul tale mercato. Sia Google sia Alphabet proponevano impugnazione dinanzi alla Corte dell’UE, mediante la quale chiedevano l’annullamento della sentenza del Tribunale nella parte in cui non aveva annullato la decisione della Commissione e la relativa sanzione pecuniaria inflitta. L’impugnazione era affidata ad una serie di motivi che la Corte ha puntualmente preso in esame e, altrettanto puntualmente, respinto. Con un primo motivo i ricorrenti lamentavano l’error in iuedicando sul criterio giuridico utilizzato dal Tribunale per valutare l’esistenza di un abuso di posizione dominante, in difformità del noto precedente di cui alla sentenza del 26 novembre 1998, Bronner C‑7/97, EU:C:1998:569 (che trattava essenzialmente di un rifiuto di fornitura di servizi in un’infrastruttura che essa aveva sviluppato per le esigenze della propria attività). A parere della Corte, invece, le pratiche di Google oggetto di scrutinio si differenziavano nei loro elementi costitutivi dalle questioni decise dalla sentenza del 26 novembre 1998 Bronner, poiché la pratica di Google consisteva in un comportamento autonomo che, pur potendo presentare gli stessi effetti di esclusione, si distingueva, nei suoi elementi costitutivi, dal rifiuto di fornitura in senso stretto, il che giustificava la decisione di considerare le contestazioni mosse nel caso di specie nell’ottica di condizioni diverse da quelle rilevate nella sentenza Bronner (ove veniva in evidenza una ipotesi di rifiuto espresso di fornitura) che